Di Serena Sparagna
Dopo l’indignazione e il furor di popolo sollevato nel caso Rummo, il pastificio si è ritrovato a combattere nella fossa dei leoni – dove la semantica moderna li vuole da tastiera – con utenti indignati e inferociti che hanno puntato i pollici in giù inneggiando al boicottaggio. La pasta italiana continua a far parlare di sé con un altro dato. Il 50% del grano impiegato nella produzione è grano importato e quindi, non farina del nostro sacco.
Cosa dicono i dati sul grano importato
La Coldiretti Puglia, denuncia un preoccupante via vai di navi mercantili dai porti pugliesi trasportanti grano estero. Giganteggia la presenza di quello russo e turco con importazioni aumentate rispettivamente del +1164% e del +798% nel 2023. Da un’analisi del Centro Studi Divulga attualmente i prezzi giocano a ribasso. Le quotazioni di grano duro con il prezzo del grano fino, sprofondano a 362 euro a tonnellata. I costi di produzione superano quelli di ricavo gettando nel precariato molte aziende produttrici italiane. L’Italia, insieme al Canada, sono i principali produttori mondiali di grano duro. Tuttavia, vi è un deficit strutturale nel processo in quanto l’Italia esporta il 50% dei propri prodotti all’estero. L’ago commerciale pende quindi sulla necessità di importare grano per far fronte alla produzione.
“L’Italia produce poco più del 50% del proprio fabbisogno complessivo di cereali e semi oleosi. Per quanto riguarda il grano, importiamo più del 50% del grano tenero e il 30/40% del grano duro. Si tratta di due specie diverse, quello tenero (Triticum aestivum) serve per preparare diversi tipi di farine che poi vengono utilizzate per produrre pane e prodotti da forno. Il grano duro (Triticum durum) ha una composizione e struttura diversa e si usa per fare la pasta”. Dice in un’intervista Andrea Villani dell’AGER Borsa medici di Bologna a Il Fatto Alimentare.
Il grano Made in Italy è migliore?
Viene sollevato dunque un quesito importante: le spighe Made in Italy, sono davvero le migliori? La risposta, sorprendete, è no. Il Presidente dell’Italmopa, associazione dell’industria molitoria nazionale, Enzo Molini, asserisce che la produzione autoctona non è sempre sinonimo di qualità. “Ce lo siamo inventati per agevolare i produttori italiani, e questo è positivo perché ha avviato un processo virtuoso sulla qualità e sui contratti di filiera. Il grano più controllato è quello che importiamo, anche perché quando arriva la nave lo abbiamo già pagato. Il 60% della pasta va all’estero, dove il consumatore è disposto a pagare di più ma non il doppio”. Ha spiegato al Sole 24 Ore.
Una questione culturale
Altro fattore che incentiva il grano importato è il cambiamento climatico che ha fatto il buono e cattivo tempo, letteralmente, su qualità e produzione del raccolto sopratutto nel sud Italia. A influire è anche l’impiego che si fa del grano negli allevamenti intensivi. Secondo Greenpeace infatti il 60% dei cereali e due terzi dei terreni agricoli europei è ancora destinato all’alimentazione degli animali rinchiusi in gabbie e recinti. Occorre quindi per i consumatori sviluppare coscienza e senso critico. Malgrado la pasta abbia un immenso valore culturale non solo nella gastronomia ma come vera e propria sineddoche identità nazionale, non è sempre e solo la soluzione più buona.
Ma noi, senza cibo Made in Italy, che cosa siamo?
Se si vuole garantire che quantità e qualità del grano italiano siano direttamente proporzionali, è importante intervenire a tutela degli agricoltori proteggendo la filiera. Attualmente il governo sta cercando di incentivare gli agricoltori finanziando la produzione anche con fondi nazionali. Eppure sembra non essere abbastanza. Gli agricoltori non vogliono perché il grano, il buonissimo, rinomato, celeberrimo grano italiano, viene pagato loro sempre meno.