Autodidatta, istintivo, cerebrale e sensibile, Alberto Gipponi è lo chef del ristorante Dina e fa parte di quella generazione di cuochi che sta riscrivendo il paradigma della nuova cucina italiana. Vediamo dunque qual è il suo rapporto passato, presente e futuro col primo tra i simboli della cucina nazional-popolare.
Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria?
«Pasta in bianco con olio e/o burro e penne rigate all’olio, burro e grana… Una meraviglia – con la fame di un ragazzo di 14 anni – facevo questo mix di grassi, col Grana, come se non ci fosse un domani. Una cosa ignorante, insomma, che mi godevo anche facendo la scarpetta con un pane di quelli che c’erano all’epoca: un pane bianco, fatto con una farina bianca raffinatissima. Erano grassi e carboidrati terribili, ma erano perfetti per riempire la fame. Ma erano perfetti per riempire la fame».
Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio in termini di pasta?
«Per nulla e tantissimo; pensa ai casoncelli: per me i casoncelli rappresentano sia il gesto atavico che la cultura, sono la rappresentazione della tradizione pura e, come tali, mi sono utili perché ho bisogno di padroneggiare completamente la tecnica che serve per realizzarli».
(Oggi in menù i suoi casoncelli si trovano sia in versione tradizionale – con crema al Parmigiano 43 mesi e polvere di salvia – che come entré all’intero menù: in questo caso si tratta del famigerato casoncello crudo ma cotto n.d.a.)
Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia professionale?
«Sicuramente, il casoncello crudo, ma cotto è, per ora, il più importante. È stata la prima cosa che ha fatto parlare di Dina. È una pasta che sembra cruda, ma è cotta; potremmo definirlo un gioco della memoria. Grande classico da Dina sono anche i casoncelli con la crema di Grana Padano. Poi, ci sono state la pasta al pomodoro, quella con senza niente dentro, e poi quella con pesche, fragole e basilico, i fusilli e diverse altre. Ma sono state importanti anche le paste di altri chef che mi hanno ispirato, come il fusillo alla bottarga e passion fruit di Taglienti o il sushi di maccheroni mangiato da Perbellini. Piatti indelebili per me.»
Tra questi qual è quello che ti rappresenta di più Alberto Gipponi nella sua identità di uomo e di cuoco? E per quale motivo?
«Un piatto di pasta significativo, che mi ha fatto capire che sono un cuoco, è l’aglio e olio: si tratta di un piatto che, personalmente, “il Gippo” non farebbe mai, ma Alberto Gipponi, invece, sa che si tratta di un piatto molto importante per Dina e, difatti, si trova sempre in menù perché c’è chi viene appositamente per assaggiarlo, o riassaggiarlo. È un piatto che non parla di dove sono io, ma parla di dov’è Dina. Di cosa si tratta? C’è una crema al prezzemolo alla base, spaghettoni mantecati con crema di patate, aglio, scalogno, peperoncino e pane croccante e, sopra al nido di spaghetti, l’ostrica ghiacciata. In una parola? Golosissimo!
Dopodiché direi la pasta al pomodoro che, però, non facciamo da due anni, e che prevedeva del resto una parte tecnica abbastanza impegnativa: ricavavo un’acqua di pomodoro in cui mettevo la pasta, in sospensione e sottovuoto, fino al giorno dopo, quando si creava quell’acidità particolare data dal fatto che l’acqua di pomodoro ne estraeva l’amido. Frullavo dunque una parte di pasta ammollata con una parte di acqua, con cui creavo una crema gelato che mantecava, a caldo, la pasta rimanente; né più né meno che una pasta mantecata con pasta al pomodoro. Con l’acqua avanzata poi montavo una meringa di pasta al pomodoro e basilico. La chiamavo la pasta bianca con senza niente dentro per distinguerla da quella che facevo, fredda, ripiena col burro e Parmigiano e rosmarino spennellato col lardo: a parte servivamo un brodo di grana e il primo boccone lo mangiavi bendato perché mi piaceva la simulazione del grasso: temperatura, fredda, e consistenza, avanti di cottura, dava la percezione del grasso: la pasta era un vettore per qualcosa, una percezione, che era di pura opulenza. Oggi tutte queste elucubrazioni non esistono più».
Ritieni che esistano formati di pasta più adatti a rappresentare la cucina della trazione e altri più calzanti per la cucina d’avanguardia?
«Premesso che non mi sono mai trovato a mio agio nella dicotomia tra tradizione e avanguardia e non so nemmeno se siano termini ancora validi, ma credo che dando senso all’agire sia possibile svincolare tutti i formati. Tipo, mi domando perché le farfalle difficilmente si trovano al ristorante. Mi piace lavorare alla evoluzione del “testo pasta”, ma il percorso è lungo e credo serva tempo per avere risultati tangibili tra la cucina e chi è seduto a tavola. Far cambiare le percezioni del bello e del buono o, quantomeno, seguirne lo sviluppo contemplando il mondo: la loro evoluzione e la loro divulgazione mi affascinano tantissimo. È solo quando una cosa riesce ad essere popolare che si rende trasversale e universale. Penso che tra cuochi si dovrebbe condividere di più, per aumentare profondità di tecnica, gusto e risultato per noi e per gli ospiti al tavolo. La cultura gastronomica italiana è troppo frammentata ed eterogenea. Tuttavia, non credo sarà una strada semplice da percorrere.
Formato e condimento: questo rapporto è più un vincolo o una possibilità?
«Per quanto mi riguarda tutto è possibile. Avevo ricavato dei ritagli dai casoncelli che trovavo molto piacevoli nel dialogo con il condimento, per cui credo che le possibilità siano legate ogni giorno, semplicemente, alle opportunità. Non è dunque il cosa, ma il come. Prendi il discorso della cottura: noi siamo abituati a servire la pasta – per non parlare del riso – super al dente. Ecco io mi chiedo, siamo sicuri che sia questo il modo giusto per raccontare un prodotto? Il tema della cottura e delle sfumature di gusto che si possono creare modulando tempi e modi è estremamente interessante. Cosa significa al dente? E il sale? Quanto è salato? Quanto deve esser salata la pasta? Esiste una cottura codificata, la si legge sulla confezione, ma poi ciascuno la declina a modo proprio, e spesso è un modo dettato dallo spirito del tempo. Sono domande che forse non avranno mai una risposta, ma trovo il tema molto stimolante. La pasta sembra uguale, ma non lo è mai fino in fondo, soprattutto, se si pensa a quella artigianale. Non si può poi nemmeno fare una gerarchia sui formati e sulle paste più adatte a certi tipi di condimento ma resta il fatto che con spaghetti e penne rigate in Italia non si sbaglia mai. Sono un po’ anarchico a volte e non mi do regole, magari provo a darmi limiti per fare ciò che non farei. Sono per la libertà anche quella di darsi limiti.»
Touché, Alberto. Come immagini la pasta del futuro?
«È una questione complessa. Come avrete capito a me interessano le sfumature, per cui non anelo a una pasta più semplice da cucinare, anzi, la complessità è mia amica. Di certo io mi aspetto che la pasta del futuro sia sempre più buona. Lo spaghettone che uso viene fatto in maniera profondamente artigianale, ha un grande gusto, ma un’assoluta inaffidabilità nei tempi di cottura. Mi è richiesta la necessità di aspettarla e la pazienza di comprendere che non è, né potrà mai essere, uguale a quella ordinata la volta precedente. È una pasta che impone attenzione, ogni volta, durante la cottura».
Bene, un’ultima semplice domanda: cos’è per Alberto Gipponi la pasta?
«Una delle cose più dolci che ci siano».
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