Una storia di pasta
di Alessandra Belvisi
Eccoci giunti al secondo appuntamento con il racconto “O’ Spaghetto mio, una storia di pasta”.
Rileggi qui la Parte I.
Paragonabile ad un intervento chirurgico quello della Bavetta: tolse l’aria di bocca alla Mafalda che cessò immediatamente di lagnarsi, punta sul vivo dell’orgoglio dalla schietta praticità della ligure.
Per un istante il vociare diminuì, ricominciai a sentire i miei pensieri. Non perché fosse volontaria quella sorta di quiete, semplicemente gli interlocutori stavano riprendendo fiato, e per caso, allo stesso momento. E così nell’aula si potevano origliare le conversazioni di altri gruppi. Una conversazione si stava facendo parecchio animata: una Linguina, qualche Spaghetto tra cui anche il famigerato 12, e poi formati più folkloristici come un Fusillo Lungo, due Riccie, e tutt’attorno i curiosi. L’industria e l’artigianato, la città e il paesino. Una scena rappresentativa della moltitudine di forme e identità che si celano dietro una forma.
Proprio da quel gruppetto saltò fuori, un po’ zoppicante e rocambolesca, una mezza frase “avete assolutamente ragione Onorevole, voi non dovreste stare con noi, qui, voi venite dalla Cina, cosa c’entrate? E’ ovvio che non vi troviate bene con questa organizzazione del…” non completò la frase. Non ne ebbe il tempo. L’intera assemblea esplose. Una risata quasi isterica, ma liberatoria. Tutta la serietà ostentata fino a quel momento svanì in una fragorosa risata che allentò le tensioni. Quella voce svanì, si zittì immediatamente e mai più, in quella assemblea, fiatò. Essendo poi lo spazio limitato e i partecipanti con code ingombranti, non si rese mai noto l’artefice della frase; anche se mi piace pensare che non si sia voluto infierire su un povero paesano, non colpevole per la propria ignoranza.
Risate a parte, erano emersi parecchi dissapori che di fronte alla convocazione dell’assemblea avevano ripreso vigore, speranzosi. Fosse passata, si sarebbe dato luogo ad un precedente, cosa a dir poco disastrosa: se ognuno di quegli screzi avesse presentato una altra mozione divisoria ci sarebbe stato il putiferio. Niente più regole generali ma miriadi di regolamentazioni scritte a sentimento, perché parliamoci chiaro, ogni formato ad immagine e somiglianza dell’uomo, ha simpatie ed antipatie.
“Che siamo noi di fogge differenti, lo sappiamo, tuttavia il popolo anch’egli di molte e più fogge, è. Siamo solo fili in questa trama, il senso comune cambia e noi cambieremo con lui. Che importa se un compagno lungo sia affiancato nel banco da uno corto? Una Tagliatella non deve sentirsi intimidita da un Maccherone, ed ancor di più non da uno Spaghetto. Stare vicini, essere identificati come unica famiglia, non toglie dignità a nessuno: siamo pasta. Quello che ci deve importare è oltre la forma signori. È il grano, è l’acqua, è l’impasto, sono mani e macchinari. Il nostro “perché” ci definisce.”
Il Presidente dell’assemblea non poteva lasciar trasparire approvazione ne dissenso, ma in quelle parole fu palpabile il rammarico nel dover assistere ad una situazione tale.
“Come osate proporvi come metodo di paragone? Non esiste che o siamo spaghetti o non siamo nulla. Questo scisma, Signor Spaghetto, è una insensatezza. A sua forma ed immagine non son fatti che gli stereotipi che ci affliggono.”
A questa sottile, ma non così sottile affermazione l’assemblea esplose. Ancora vivo era il rancore verso quell’immagine che si era artificiosamente creata attorno all’italiano, quello stereotipo, che usa come propaganda proprio la pasta e lo spaghetto. Iconico, caratteristico, popolare, e per questo facile ed indifesa preda. Il mito dello spaghetto costruito per gli stranieri, quando nel Bel Paese si aspettavano di trovare zoticoni ignoranti, mangiando pasta “asciutta” con le mani. Di per sé il fatto che fosse asciutta era già fuori dal comune, se aggiungiamo il folkloristico modo di cibarsene poi… la perfetta leccornia esotica ad uso e consumo del turista.
Il mito ha una base di fatti reali: lo spaghetto e la pasta più in generale sono un simbolo dell’Italia nel mondo. Prendendola alla lontana be’, per caratteristiche fisiche proprie del territorio che vanno dal clima al suolo, fino alla flora indigena.
L’Italia ed in particolare il sud è ideale per la produzione di grano, e nello specifico di un grano ottimo per essere trasformato in pasta; questa coltivazione in altri luoghi non è stata altrettanto favorita. Ma una volta abbiamo un buon grano bisogna scegliere: come consumarlo? Domanda insidiosa e più complessa del previsto. Per fare la pasta serve la farina, ma per ottenere la farina c’è bisogno di un mulino, e questo è uno strumento di non poca tecnologia.
Il tranello sta nel grano.
Prima osservazione: per renderlo più conservabile viene essiccato ma togliendo l’acqua diventa anche più duro e quindi più difficile da sgretolare. Seconda osservazione: il grano che si usa per fare la pasta è il grano duro, e questo nome non è casuale poiché viene dal latino letteralmente tradotto. É un chicco duro, vitreo, impossibile da lavorare a mani nude. Sommato abbiamo un chicco già di per sé duro, che essiccato non può essere triturato che da una ruota di pietra non proprio esile.
Ogni cultura poi ha avuto il suo bel scervellarsi su come trattare sti benedetti cereali.
In Cina hanno trovato una soluzione simile a quella italiana, con una differenza sottile ma sostanziale: hanno usato il grano tenero ed altre fonti amidacee. Per strade diverse, sono giunte alla medesima soluzione: cuocere un impasto più o meno solido in acqua calda. Oggigiorno i macchinari che abbiamo per la produzione industriale sono stati ideati per semplificare passaggi che prima erano fatti a mano. Sono delle scorciatoie ma il mondo non nacque industriale, nacque terra battuta. Nella penisola italica, coincidenza, si sviluppa il grano e la macina, si lavora con la farina… o forse il contrario? Il grano si diffonde così tanto proprio perché si impara a macinarlo… la stessa frase scritta al rovescio, un piccolo cambio sulla carta che però stravolge la storia.
Ma andiamo oltre, a noi interessa che queste due figure, il grano e la macina vi siano, e v’erano. Abbiamo conferma dai Romani che ci rassicurano poiché parlano spesso di grano, di pane persino come soldo, di macine… e per semplificarci la vita già parlavano di pasta, più o meno asciutta. E stringiamo ora il cerchio: la pasta è un simbolo dell’Italia, ed universalmente riconosciuta è una forma, lo spaghetto.
Per chi non cresce circondato da miriadi di forme diverse di pasta, tra centinaia di modi diversi di condirle è facile perdersi. Lo stereotipo passa anche, poi, per differenze linguistiche: tra le quattro mura di una casa d’Italia non esiste la pasta. Esistono Fusilli, Penne, Tortiglioni, Mafalde, Spaghetti, Tagliatelle… ed un’infinità ancora. E li chiamano per nome, e si offendono e litigano se non riconoscono nel nome che usiamo quel formato, un po’ come una fidanzata si infurierebbe se usassimo il nome di un’altra.
Prima dell’industrializzazione la produzione era artigianale; quelli che si possono definire macchinari o utensili aiutavano a trattare la pasta, ma non a darne la forma caratteristica. Senza matterello e spianatoia non si sarebbe potuta stendere, ma era la mano dell’uomo a guidare con pressione e movimento, quel pezzo di legno. A tagliare è la lama, ma questa sempre da una mano è mossa. Dall’occhio, preciso ma imperfetto, imprevedibile, creativo e ballerino.
La genialità umana è soluzione, un’ingegno quotidiano artefatto ed artefice dell’esperienza umana; e la forma dello spaghetto ne è una umile espressione. La particolarità dello spaghetto è quella di essere universalmente riconosciuto come il formato della gente. La sua forma è uguale per tutti, ricchi e poveri, è sottile e lungo, vi sono forse una decina di diametri diversi in giro, ma è lui sempre tondeggiante: riconoscibile. La sua forma è nata per necessità, perché fare la pasta richiede tempo, e questo è uno e solo. Senza aver bisogno di molti strumenti, la forma più semplice che si può dare ad un impasto è un filo, più o meno sottile. Inoltre un filo è una forma relativamente gestibile: questo vuol dire poter essere appeso al sole e al vento per asciugare, ed una volta seccato poter essere impilato usando poco spazio, essendo così facile immagazzinarlo e trasportarlo.
Questo è ancora oggi il processo produttivo, ma se prima a massaggiarlo erano mani di donne, ad accarezzarlo era il salato respiro del golfo di Napoli, oggi veramente pochi sono gli spaghetti che arrivano da lì. Sempre quel maledetto ingegno eh…
Oggi è tutto più veloce, e quella forma iconica ha subito un restyling nella produzione. Ma è anche questo che lo ha reso così popolare. La possibilità di aumentare la produzione non fece altro che consolidare la presenza di quel formato nelle case. A differenza di altri formati, grazie o per colpa della sua diffusione oltre i confini di un solo dialetto, è il simbolo dell’Italia unita. Rassicura e non da luogo a troppi screzi sentire di uno “spaghetto allo scoglio”, piuttosto che “alla carbonara”, “al pomodoro” o il suo opposto “al pesto”, fino a una delle più antiche forse, “aglio e olio”. A consacrare nell’immaginario globale la sua forma, come sinonimo di Italia, il cinema italiano coi suoi attori e la sua impronta; la nuova arte che ha conquistato il mondo.