Pugliese per nascita, piemontese d’adozione e, a detta di tutti, estremamente capace: Pasquale Laera ha inaugurato nel 2019 il suo ristorante Borgo Sant’Anna a Monforte d’Alba, un progetto che ha ottenuto la stella Michelin lo scorso anno. Una gavetta, quella di Pasquale, iniziata al termine degli studi che lo ha visto sbarcare nelle cucine di chef Antonino Cannavacciuolo, al fianco del quale è rimasto per sei anni, quindi in Giappone da Okamoto e in Danimarca al Geranium; mettendo a punto quel talento che, però, è tutto farina del suo sacco.
Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria, quello che cucinava tua madre?
«Il piatto di pasta a cui sono più affezionato è lo Spaghetto con cicoria amara e cacioricotta. Un piatto che mia madre preparava durante la settimana e non nelle feste, ma io lo adoro.»
Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio?
«Tantissimo, perché a casa mia la pasta, fresca o secca, non mancava mai durante il pranzo. La maggior parte delle volte era abbinata a verdure quali cavolfiori, cime di rapa, broccoli, cicorie, fagiolini occhipinti e tanti altri ancora. Nelle feste veniva arricchita con grandi ragù di carne: pecora, maiale, manzo, asino…»
Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia professionale?
«Pasta dello scambio – Bra duro e acciuga-; Tajarin di fave bianche, ricci di mare e cardamomo; Spaghetto, anguilla e porri di cervere grigliati; Pasta e cozze; Ravioli di lepre in civet. Penso che ognuno di questi piatti rifletta la contaminazione dovuta alle mie esperienze e le diverse usanze legate alla pasta che si ritrovano tra Nord e Sud.»
Tra questi qual è quello che ti rappresenta di più nella tua identità di uomo e di cuoco? E per quale motivo?
«Credo che tutti i piatti di pasta che propongo abbiano una loro identità. Non devono mai mancare nella mia carta, in generale per me la pasta non dovrebbe mai mancare in nessun ristorante italiano. L’importante è che il piatto sia ben fatto e che ciò non sia dato per scontato.»
«Tornando alla domanda, direi gli Spaghetti con anguilla e porri di Cervere grigliati, che ho in carta in questo periodo. Ci sono tre ingredienti coltivati e allevati qui in Piemonte, ma io li amalgamo usando tecnica e gestualità del Sud. In questo senso cerco di valorizzare al massimo la pasta, con gli spaghetti che cuociono in una estrazione di porri grigliati e acqua di pomodoro: al gusto si sente il pomodoro, ma chi lo mangia non lo riesce a percepire, perché tutti immaginiamo il pomodoro rosso, invece io uso solo l’acqua che è trasparente. Mi piace usare gli spaghetti, penso sia il formato di pasta più conviviale che ci sia.»
Trovi che sia legittima una gerarchizzazione della pasta in base al suo formato? Mi spiego meglio: ritieni che esistano formati più popolari (da trattoria o da bistrò) e altri più elitari (da fine dining)?
«Penso che la pasta sia bella e buona se c’è qualità; serve poi la sensibilità del cuoco per darle fascino.»
Liscia o rigata?
«Dipende da cosa si vuole ottenere. Corta, amo quella rigata; lunga, mi piace liscia.»
Lunga o corta?
«Personalmente trovo che dipenda sempre dall’occasione, dal condimento e dal numero di commensali.»
Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure il cuoco è libero di fronte a quello che, a livello domestico, può esser considerato un vero e proprio tabù?
«Secondo la mia idea di cucina non esiste un tabù vero e proprio, c’è però da considerare sempre quanto uno è disposto ad osare e spiegare poi il motivo di tale scelta. Credo che la pasta non sia solo buona, ma anche bella. Qualcosa che noi ormai diamo per scontato, perchè è un ingrediente che abbiamo sempre sotto gli occhi. Dovremmo ritornare a sperimentare, credere nella pasta mettendola in discussione. Anche ritornare a fare la pasta fatta in casa; è un atto che ci fa riprendere manualità, è il tramandare gesti antichi.»
Come immagini la pasta del futuro?
«La immagino di grande qualità, realizzata con grani antichi, con una forte personalità e con l’utilizzo di packaging più piccoli per evitare sprechi inutili.»