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MAURO ULIASSI

Il ristorante Uliassi, a Senigallia, che dal 2018 risplende alla luce della terza stella Michelin, è LA meta indiscussa per chi vuole mangiare una cucina di mare autentica e creativa. Dal 1990 al timone c’è Mauro Uliassi che, con la sorella Catia, richiama nelle Marche i gourmand di tutta Italia. Una cucina creativa e sperimentale che affonda le proprie radici nei ricordi d’infanzia dello chef e nelle tradizioni secolari della zona.

Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria? 

«I boccolotti (gobetti, oppure pipette, oppure lumache) con il ragoût e i piselli. Era la pasta di quando andavo all’asilo… era comunque la pasta che trovavi in tutte le case tra gli anni Sessanta e Settanta». 

Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio? Quanto lo influenzerà ancora in futuro? 

«Noi che viviamo sulla Costa Adriatica siamo accomunati da un linguaggio comune: chi abita questi luoghi ha di fronte un orizzonte comune, il mare e, voltandosi, le campagne e le colline. Un tempo a Senigallia, sul lungo mare dove ora ci sono gli alberghi, c’erano le casupole dei pescatori, che avevano davanti l’argano per la barca e dietro l’orto, con piccoli allevamenti di galline, piccioni e l’immancabile stipo del maiale. A qualche centinaia di metri dal mare c’erano acquitrini e fossi – spariti oggi per l‘urbanizzazione – dove le rane, le lumache, le anguille e la selvaggina erano il mangiare di tutti. La percezione della terra, unita a quella  del mare, marcano profondamente la nostra  cultura e costituiscono un un fil rouge nei vari modi di pensare  al cibo, che sta nella  mescolanza continua tra tradizioni di terra e di mare. Ed è a questo quadro, quello di cui sono spettatore, che come cuoco, nella mia  incessante e maniacale ricerca di perfezione e di dominio del gusto, ho bisogno di agganciarmi. Ho bisogno di un ricordo da cui partire, per esplorare l’inesplorato: ho bisogno di un costante riferimento al noto e al conosciuto». 

Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia professionale? 

«Lo spaghetto affumicato alle vongole. Un giorno Stefano Bonilli mi chamò dicendomi che sarebbe venuto al nostro ristorante e mi disse: “dai Mauro, fammi sentire come fai uno spaghetto alle vongole.” Da qui nacque la voglia  di fare uno spaghetto alle vongole diverso da quello cucinato un po’ ovunque. Dalle nostre parti  lo fanno o in bianco o con il pomodoro. Noi togliemmo il pomodoro come salsa, ma lo reintroducemmo con dei  ciliegini arrostiti con il timo e poi essiccati per 3 ore a 40 gradi, per fargli aumentare la sapidità e l’acidità. Facemmo un aglio olio e peperoncino con le vongole appena scottate e sopra mettemmo i pomodorini arrostiti. Ci piacque molto il sapore acido e abbrustolito e  i sentori di fumo dei ciliegini: al punto che decidemmo di accentuare il profumo di affumicato. Facemmo diverse prove fino a preparare un brodo con l’anguilla affumicata in cui finimmo di cuocere gli spaghetti. Nel 2008 fu considerato il piatto dell’anno ed è tuttora in carta. Un altro  è “il mare da bora”, che racconta, nelle sue sfumature olfattive, l’odore delle alghe rilasciate dalle onde che poi si ossidano sul bagnasciuga. Altro piatto molto amato dalla clientela e dalla critica». 

Tra questi, qual è quello che ti rappresenta di più nella tua identità di uomo e di cuoco? E per quale motivo? 

«Non ho un piatto che mi rappresenta di più. I piatti si superano di continuo e le ultime creazioni sono sempre le più amate, per poi essere superate da quelle successive».

Trovi che sia legittima una gerarchizzazione della pasta in base al suo formato? Mi spiego meglio: ritieni che esistano formati più popolari (da trattoria o da bistrò) e altri più elitari (da fine dining)?

«La pasta è pasta sia nelle trattorie che nel fine dining. A volte può succedere che nell’alta ristorazione si preferisca la pasta fresca a quella secca per solo questioni di praticità: la pasta secca di semola è più complessa da cucinare per via dei tempi di cottura: se sbaglio una pasta fresca, in 2 minuti ne faccio un’altra, non è così con uno spaghetto o un altro formato». 

Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure si può forzare quello che, a tutti gli effetti, può esser considerato un tabù?

«La pasta non ha vincoli. Ci sono sughi e condimenti scritti nei testi e diventati tradizione, ma in verità la pasta è uno straordinario veicolo per qualsiasi prodotto. Posso condirla in ogni modo: apro il frigorifero e quello che è rimasto dalla cena della sera prima può diventare  uno straordinario primo piatto».

Come immagini la pasta del futuro? 

«La pasta del futuro è quella che sto usando al ristorante. La pasta di un genio che per seguire il suo sogno rischiava di fallire. Si chiama Pietro Massi ha passato la sua vita a sperimentare formati e impasti in una sorta di ossessione, in cui aveva coinvolto tutta la sua famiglia. Io andavo a trovarlo e lui, dalla mattina fino a notte  fonda, stava a studiare mescole  e macchinari. Tutti volevano i suoi segreti. Ad un certo punto un imprenditore illuminato ha investito nella sua azienda: l’ha acquistata con lui dentro, ovvero lasciandolo continuare a lavorare con la famiglia e il suo brand: oggi è la Pasta Pietro Massi. Confesso: sono davvero molto felice di supportarlo e di essere stato coinvolto nel suo progetto, in riferimento al quale  mi permetto di dire, a mio rischio e pericolo, che si tratta davvero della pasta più buona che possa trovarsi oggi in Italia, e questo ne fa, per diretta conseguenza, la pasta migliore al mondo. Ciò è dovuto a un fatto di metodo:  la pasta è lavorata a freddo, senza picchi di temperatura… temperatura che è codificata in ogni momento del ciclo produttivo: questa è la pasta del futuro».

Ph© Cicconi Massi’  

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