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O’ Spaghetto mio – Parte III

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Una storia di pasta

di Alessandra Belvisi

Eccoci giunti al terzo e ultimo appuntamento con il racconto “O’ Spaghetto mio, una storia di pasta”.
Rileggi qui la Parte I e qui la Parte II.

o spaghetto mio
Ph. Adriana Blanc

La tensione nell’aria poteva tagliarsi col coltello, e i rappresentanti delle varie delegazioni non riuscivano a star composti: irrequieti, disordinati, provati dalla stanchezza e dalle emozioni che tanto discutere possono provocare.

Una voce, più risentita delle altre, si levò dall’assemblea:
“Non son io della tua stessa fattezza? Dove metti tu la linea, per dire c’io sono diverso e non simile a te? Non siamo forse lunghi per lo stesso motivo? Non sono forse di grano le membra di entrambi? La nostra storia non si intreccia, forse, tanto profondamente da essere ormai difficile da srotolare? Perché fuori mi chiami fratello ma qui, ti ostini a portare differenze che neanche ti appartengono?”

Bisbigli sommessi ma di palese approvazione iniziarono a serpeggiare tra i presenti.

Non era d’indole malvagia, lo Spaghetto, ed in quel momento in quel giorno, qualcuno giura ancora oggi di aver visto nel suo sguardo, celato dietro la corazza dell’orgoglio, paura. Quello era il motore che lo aveva spinto a tirare in ballo tutto quel teatrino: il timore di diventare banale. Lui, la pasta del popolo, venduto alla massa, si sentiva comune ed orribilmente banale; e il suo nome… non ricordava più se neanche avesse mai avuto dignità. Questi pensieri gli si potevano leggere nello sguardo vuoto, che lasciava aperto uno scorcio nel suo animo, dove amarezza e sconforto non potevano più nascondersi.

In quel momento, dal suo volto, l’assemblea capì. L’Onorevole Spaghetto non voleva lo scisma, non voleva separarsi dalla famiglia delle paste lunghe, voleva solo conforto e sentirsi a casa. Voleva non sentirsi più solo. Intervenne una Pappardella: il suo tono di voce era pacato, si trovava a qualche seduta di distanza dallo Spaghetto e a tutti parve che si stesse rivolgendo a lui come fossero in privato, come farebbe un caro amico.

“Onorevole, lei non deve temere questa assemblea. Non siamo qui contro di lei o per lei, ma con lei. Così tutti qui, siamo venuti per quello che ci unisce. Quel che ci divide è lo spazio, tuttavia le suggerisco di vedere nella terra e nell’acqua, che vi sono tra noi, un tesoro inestimabile. Veda la forza dell’acqua e veda la ricchezza della terra, la riveda nella sua forma e nella mia; siamo nati dall’ingegno di persone che hanno deciso più o meno coscientemente di chiamarsi popolo. Trovi il suo equilibrio onorevole, le differenze possono essere la fine, l’inizio, ma anche la gioia della scoperta.”

Queste parole rimasero impresse in tutti i partecipanti.

L’onorevole non rispose, non si commosse, non si scompose, non reagì. In nessun modo. Si sedette, ravanò in modo composto tra i fogli che aveva di fronte e iniziò a scrivere su uno di questi. L’assemblea rimase congelata, lo sguardo fisso su di lui, immobile. Terminato di scrivere piegò il foglio in quattro, con la calma ed il contegno propri di un gran signore. Allungò il foglio piegato in quattro ad un vicino di posto e gli fece cenno con il capo di passarlo al presidente. Aveva fatto richiesta scritta per procedere immediatamente alla votazione.

“Procediamo secondo il regolamento alla votazione.”

L’assemblea si chiuse in un silenzio limpido, liscio, dove le voci scivolavano nell’aria senza lasciarvi traccia. Uno alla volta ogni delegato fu chiamato a votare: “a favore” e “mi oppongo” furono le uniche parole nell’aria, che scivolarono fuori dall’aula come fosse vuota per disperdersi nel cielo di un tardo pomeriggio. L’ultimo a votare sarebbe stato colui che aveva proposto la mozione: e così fu.

Ormai al crepuscolo, l’onorevole Spaghetto fuggì un istante con lo sguardo al cielo. Da quello scorcio sopra Roma si intravedevano già alcune stelle che punteggiavano come diamanti sullo sfondo del sole calante. Da dentro quella cupola sembrava di poter toccare il cielo. V’era ancora luce, di quella aranciata e calda d’estate mentre il cielo da un chiaro arancione sfumava nel rosa e nell’azzurro, sempre più intenso, fino al blu che ormai si avvicinava lambendo le punte della luna nel cielo.

“Vi invito a discutere di queste questioni, più di famiglia che di stato, nella sede opportuna. All’angolo di questa via v’è un’osteria dall’insegna stinta, le sedie di legno rovinate ed i bicchieri che hanno toccato un’infinità di labbra. Lì, alla stessa tavola, mangiando e bevendo insieme, potremo parlare. In questa cupola ci stiamo avvicinando troppo agli astri, e temo che da lassù ci perderemmo il fascino delle imperfezioni e degli errori, dopotutto il nostro grano cresce dalla terra.”

Furono le ultime parole pronunciate nell’aula. La mozione non fu approvata, lo stesso Spaghetto votò a sfavore.

Per l’occasione si era concordato per riunirsi in campo simbolico, in una delle molte cupole del cielo romano. Come vi erano giunti si chiederanno i miei lettori. Questo potrebbe trovare una bizzarra spiegazione in un discorso del Papa, con dei doni che i pellegrini portano da ogni dove cui provengono, considerando una chiesa come magazzino delle offerte, e un Rigatone piuttosto bravo con numeri e documentazione non proprio sincera.

Potrebbe però più facilmente non essere spiegato, lasciando a voi carta bianca su coincidenze e premeditazioni. Dopotutto chi sono io perché vi fidiate delle mie parole?

Fine.

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