Uno chef solido e con le idee molto chiare, classe ‘72, all’anagrafe Emiliano Lombardelli. Estremamente preparato, accademico nel senso più puro e più nobile del termine, artefice di un classicismo sobrio e acuto. Dopo aver lavorato nell’alta ristorazione con esperienze elbane, romane ed alpine, torna all’Argentario Golf Resort & Spa con l’intento di posizionare il Dama Dama ai massimi livelli della cucina italiana.
Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria?
Chiaramente la pasta al pomodoro, mi ricordo ancora il profumo di quella che preparavano le suore all’asilo. La mia famiglia materna poi viveva in campagna e qui in Maremma è tradizione mangiare i tortelli, quindi la domenica se ne mangiavano anche 15 0 20 a testa. Quello che rimaneva si mangiava poi il giorno dopo, penso agli gnudi confezionati con l’avanzo del ripieno e poi conditi con burro e salvia.
Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio?
Tanto, le tradizioni familiari rimangono addosso nel tempo e la mia era una famiglia tipica italiana dove a mezzogiorno si mangiava sempre la pasta. Mia madre era una brava cuoca, mio cognato aveva un peschereccio e portava un sacco di pesce a casa, sono ricordi indelebili. Io fin da piccolo giocavo con le pentole, era quasi destino che la mia passione, unita a una solida tradizione familiare, sfociasse in questo mestiere.
Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia
professionale?
Il piatto che più mi rappresenta è il Bottone di caldaro dentro e fuori. Il caldaro è la zuppa di pesce tipica dell’Argentario, una cugina del caciucco livornese. Per evitare che clienti si inzuppassero di salsa, ho alleggerito questo piatto agendo sulla forma. Inizialmente servivo degli spaghetti di semola trafilati da noi, oggi viene presentato un raviolo che al suo interno racchiude la parte più nobile del pesce, mentre meno nobile ma più saporita serve per preparare un brodetto rifinito in sala.
Trovi che sia legittima una gerarchizzazione della pasta in base al suo formato? Mi spiego meglio: ritieni che esistano formati più popolari (da trattoria o da bistrò) e altri più elitari (da fine dining)?
Assolutamente sì, nel Resort in cui lavoro abbiamo due ristoranti dove si vuole proprio differenziare questo: nella Club House si prepara una cucina autoctona, di altissimo livello, ma dove si vuole evidenziare la semplicità.
Il ristorante di fine dining Dama Dama è invece incentrato su un’interpretazione in chiave gourmet: qui utilizzo le paste fatte a mano da noi, come nel caso del Fusillone con cacio, pepe e alghe di mare. Preferisco evitare le paste troppo elaborate, mentre prediligo i formati che siano ben riconoscibili dal momento che i piatti sono già complessi.
Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure il cuoco è libero di fronte a quello che, a livello domestico, può esser considerato un vero e proprio tabù?
Penso che questa regola sia stata sdoganata già da tempo. La tagliatella non deve essere per forza al ragù, o il picio all’aglione. Personalmente mi piace prendere spunto dalla tradizione, il formato che si utilizzava in passato sicuramente non era frutto di una scelta casuale, ma una volta capito il ‘perché’ mi piace metterci un pizzico di tecnica e innovazione. Il picio, ad esempio, lo servo anche con gamberi e broccoli, piuttosto che con un ragù d’anatra.
Come immagini la pasta del futuro?
Spero non in pillole. Scherzi a parte, la pasta è tradizione, fa parte della nostra cultura enogastronomica. A me piace azzardare, ma con delicatezza, senza andare oltre i canoni perchè si perde il gusto e anche la tecnica. Spero che in generale si lavori sulla leggerezza, sulla qualità di farine e uova, ma senza tralasciare la tradizione che ha fatto grande la cucina.