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Isa Mazzocchi: il Gene della cucina

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Una piccola nota per il lettore

Prima di iniziare sento quantomeno necessario una piccola liaison introduttiva: personalmente non ho pazienza per le descrizioni, per la didascalicità, per i resoconti minuziosi. Pertanto in questa intervista non parlerò dei numeri, delle tappe, dell’ excursus di una Donna e di una Chef che la cultura di un territorio l’ha abbracciata e continua a perorare la sua causa di tramandare l’eccellenza del piacentino. Parlerò del principio, della passione e del coraggio.

Il gene della cucina

In principio era il fuoco. Da lì il mammut è diventato carne, i tuberi stufato, il latte un primordiale formaggio. Rifacendosi scientemente ad un certo darwinismo culinario, nel nostro DNA il gene della cucina non esiste. Si tratta piuttosto di una scienza creata e affinata nei secoli- lasciandosi dietro uno stuolo di problematiche credenze popolari- che vedono il burro toccasana per le arterie- E malattie come scorbuto e gotta. Si giunge ai giorni nostri: ai ristoranti gourmet, all’avanguardismo gastronomico, i servizi al gueridon ad effetto, alla New Trattoria finalmente alla riscossa, fino alla morsa stringente del Food Porn.

L’evoluzione ha quindi garantito lo spillover culinario piazzando gli uomini con la toque nelle cucine a sperimentare la beurre blance e le donne con la parannanza nei tinelli a darci giù di matterello. Eppure sono proprio le donne, a detta degli esperiti in borsalino, ad avere quel gene della cucina che le relega ai fornelli. Quelle donne che sembrano essere proprio nate per cucinare, nutrire le nuove generazioni.

Ad un certo punto, c’è una mutazione, un ribaltamento dello status quo. Un’ alterazione nel genoma secondo cui le donne non sono solo brave a fare da mangiare. Vogliono anche prendere parte attivamente a quel discorso culinario iniziato all’alba dei tempi secondo cui il cibo è in grado di edificare intere culture. Proprio in questo punto della storia, la figura della Chef Isa Mazzocchi diventa parte intrinseca, elemento di rottura di una società dove il panorama della cucina italiana inizia a mutare. Siamo negli anni ’80.

“Ricordo che quando ero una ragazza entrare in una cucina non era possibile anche per una questione logistica. I ragazzi erano sicuramente un numero importante e quindi non avevano alloggi e la possibilità di tenere separati i due sessi. Poi perché c’era un visione diversa di quella che era la cucina. Le occupazioni professionali erano sempre un po’ appannaggio degli uomini ma come tutto un po’ negli anni ’80. Era probabilmente una questione culturale e anche di passaggio. Io sono arrivata dove sono arrivata prendendo le mie batoste come hanno fatto tutti: uomini e donne.”

Da qui inizia il suo personale Big Bang gastronomico esploso prima, nella locanda di famiglia per poi andare incontro ad una naturale evoluzione. Cresce e si espande verso l’alto ma con le radici ben piantate dove tutto è partito. Per scelta.

“I nostri genitori avevano un’osteria proprio qui, a Bilegno. Noi abbiamo continuato la tradizione di famiglia. Abbiamo deciso di puntare su questo territorio per l’unicità della zona, della terra, dei prodotti che ci circondano. Abbiamo puntato su questo per rendere unico anche ciò che serviamo. La nostra non è una cucina sperimentale non dal punto di vista della ricerca ma dell’abbinamento. L’agnello che io acquisto in Val Tidone, so benissimo che non è quello Sanbucano che è super complesso di sapori o conosciuto. Ma io servo in tavola un agnello che ha mangiato qui, vissuto qui, respirato qui”

La cucina si evolve all’evolversi dei tempi

A La Palta, sopravvive dunque quell’istinto primordiale di prendersi cura del commensale partendo dalla materia prima, tessendo quindi una rete tra produttori e consumatori dove il ruolo della Chef è di tramutare quanto già esistente in artigianato culinario

“È una cosa che io ho visto fare da mio padre e da mia madre. È la volontà di voler far star bene chi siede alla tua tavola la cosa principale. Quindi non compri da allevamento intensivo senza sapere la provenienza del prodotto. Te lo vai a prendere tu. L’etichetta ce la metti tu. Mi rendo anche conto di essere fortunata. Di essere nata in un luogo che mi permette di fare questo.

“Ci sono dei fornitori che sono qui da 40 anni. Poi ci sono i nuovi produttori. negli ultimi 5 anni qui a Piacenza è esploso un movimento di giovani coltivatori che tirano fuori dei prodotti incredibili: fori eduli, coltivazioni particolari. Il nostro compito è scovare queste piccole chicche di innovazione, dare fiducia mettendoli in tavola per far conoscere quindi i prodotti del territorio.”

Ci si rifà dunque alla memoria gastronomica, a quello che il trascorrere degli anni ha mutato in tradizione, per poi proiettarlo nel futuro adattandolo ai tempi moderni. Isa Mazzocchi lo fa in Emilia Romagna dove nulla è più sacro della pasta, più precisamente della pasta ripiena in un eterno tiro alla fune tra classicismo e futurismo: una radicata presa di coscienza nei confronti della cucina regionale svecchiata dalla Chef.

“La sfida sta nel portare il cliente nella tua dimensione con delicatezza, senza spaventarlo, facendogli capire qual è il passaggio. Nella nostra storia di osteria dove si parte dalla tradizione, il cambiamento non è stato immediato e radicale. È stato aggiungere delle cose che i nostri clienti hanno  apprezzato. Alcuni li abbiamo persi, ma altri sono ormai con noi da 30 anni affezionati de la Palta

Una cucina catalogabile come “semplice, di ricerca e consapevole” come nella scelta di elogiare la pasta in un menù che diventa quindi fortemente identitario e autoriale.

“Sicuramente l’Emilia Romagna è la patria della pasta fresca ripiena e della pasta fresca in generale. Da Piacenza a Rimini vediamo che c’è una varietà di paste che è incredibile per manifattura e storicità perché ogni pasta è un racconto ma anche un momento storico. Per noi la pasta è importantissima. Nel menù serviamo solo paste fresche, e quasi tutte ripiene, naturalmente. L’atto stesso di prepararla è essenziale, quando ci si mette intorno a quel tavolo di legno. Si tira la sfoglia. C’è pace perché  lavorare con le mani è rilassante e terapeutico.”

“Intorno a questa tavola si creano degli umori e ci si raccontano delle storie. Mi ricorda tutte le volte quando ero una bambina quando intorno alla tavola c’erano le rezdore che preparano la pasta perché l’osteria dei nostri genitori vendevano la pasta anche alle botteghe che c’erano qui in valle. Veramente chili e chili di tortelli, anolini e pisarei. Intorno a queste tavole si raccontavano storie, di vita. La pasta fresca è straordinaria”

Il gene dell’emozione

Ad innestarsi, è il gene della convivialità, dell’appartenenza così insito nella natura umana, catalizzatore della società, che ha dato origine al mondo come lo conosciamo oggi. Questa è la chiave di lettura della cucina di Isa Mazzocchi.

Emozionare. È quello che lascia il segno per sempre. Riuscire a far ricordare ai clienti cosa hanno mangiato. Un piatto che era sicuramente buonissimo, se però non ha colpito a livello emozionale , non ha centrato l’obiettivo”

Inizia dunque tutto con un atto di coraggio e di ribellione. Dalla goccia che ha scavato la pietra con perseveranza dalle prime creature che lasciarono l’acqua per esplorare la terra. Cosa ne sarebbe stato del gene della cucina se prima di tutto non avessimo avuto il gene della curiosità? Senza le idee?

“I tortelli di pisarei ripieni di anolini hanno rappresentato la preparazione più sfidante. L’idea nasce dal mettere insieme le tre paste tipiche della nostra provincia in un unico piatto. Voleva essere una provocazione. Perché comunque c’è sempre questo dilemma: pisarei o anolini? Però nel realizzarlo è stata molto difficile. Adesso che è fatto sembra semplicissimo, no? Come esempio l’arte moderna: come i quadri di Fontana. È l’idea che fa la differenza. L’idea può anche arrivare ma poi la messa in atto è la parte complicata.”

Il darwinismo culinario di Isa Mazzocchi parte dunque da  quel gene della cucina secondo cui non si diventa chi si diventa per chi si è, ma per chi si è combattuto per essere.

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