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ALBERTO QUADRIO

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Un curriculum impressionante quello di Alberto Quadrio, lo chef che a soli trent’anni ha prestato servizio presso alcuni dei più celebri mostri sacri del panorama gastronomico. Nomi come quello di Gualtiero Marchesi ai tempi de Il marchesino, di Hishinuma a Tokyo, Geranium a Copenaghen e ancora Pietro Leemann, Andrea Migliaccio, Matteo Torretta, Norbert Niederkofler Alain Ducasse. Originario di Gattinara, lo stesso luogo che da questo 2 giugno 2021 ospita il suo Cucine Nervi, Alberto Quadrio è prima di tutto un animo sensibile e la sua cucina ne è il suggestivo riflesso.

Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria, quello che cucinava tua madre?

Il suo piatto classico era una penna con panna e pancetta, mentre la nonna preparava sempre una penna burro e salvia. Non c’era una buona amalgama, il burro era slegato, ma quel piatto mi emoziona ancora, mi riporta all’infanzia. Non è dunque tanto la perfezione del piatto a regalare un’emozione, la cosa più importante è far da mangiare, è questo che dovrebbe tornare a fare ogni cuoco prima di tutto.

Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio?

Sono tornato a casa dopo tanti anni trascorsi all’estero e questo progetto è proprio volto al territorio, un territorio che credo abbia ancora bisogno di “nascere”. Il nome Cucine Nervi indica proprio che lavoro molto con l’ingredientistica del posto, dall’allevatore al pescatore, con gusti che però si possano trovare in ogni parte del mondo. Per questo introduco tecniche anche orientali, è tutto molto volubile.

Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia professionale?

Io sono stato cresciuto a riso, la pasta ho imparato a lavorarla a L’Olivo, il ristorante 2 Stelle Michelin del Capri Palace. Quando Andrea Migliaccio mi ha preso con sé e mi ha spiegato come sua nonna preparava la pasta e patate, ho iniziato a vedere la pasta in maniera differente. Mi ha appassionato e, avendo avuto anche la possibilità di visitare i pastifici della zona, ne ho compreso la qualità e la lavorazione.

Tra questi qual è quello che ti rappresenta di più nella tua identità di uomo e di cuoco? E per quale motivo?

Io mi annoio facilmente di qualsiasi cosa, dal 2 giugno la carta è già cambiata tre volte; non riesco a stare fermo. Un piatto nel quale mi identifico molto è l’Idea di pasta al ragù, dove il ragù di coda alla vaccinara invece di stare fuori, sta dentro, in una sfoglia che riporta all’Emilia-Romagna. La pasta è poi lavorata con un Friggione e una fonduta di Vetta del Monviso del caseificio di Bagnolo Piemonte. È un piatto che unisce tutta l’Italia, da Roma fino a Cuneo, sia per gli ingredienti che per cultura gastronomica.

Che tipo di pasta proponi nel tuo ristorante? (Fresca, secca, all’uovo…) E, se la acquisti, da quali produttori ti rifornisci?

Al momento non so rispondere, sto ancora provando diversi marchi artigianali per la pasta confezionata.

Trovi che sia legittima una gerarchizzazione della pasta in base al suo formato? Mi spiego meglio: ritieni che esistano formati più popolari (da trattoria o da bistrò) e altri più elitari (da fine dining)?

A me piace la pasta in realtà. Poi dipende dal momento, da quello che si cerca. Penso alla materia, non al prodotto finito: al grano, a tutta la filiera che si cela dietro ad un formato, indipendentemente dalla specifica forma che questo assume. Se c’è qualità, c’è qualità, indipendente dall’aspetto. Al massimo potrei dire di essere contrario alle letterine, agli animaletti… e a tutti quei formati pensati per la vendita al turista: prima di aromatizzare una pasta bisognerebbe saperla cuocere e cucinare in modo corretto.

Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure il cuoco è libero di fronte a quello che, a livello domestico, può esser considerato un vero e proprio tabù?

Trovo che sia una questione di sensibilità del cuoco e di tatto, sono questi fattori che determinano come servirla. È come se fosse la stessa pasta a parlarmi, a indicarmi il modo migliore per cucinarla. Noi cuochi siamo un braccio della natura e dei fornitori, la mia è una cucina dove a farla da padrone sono loro, è una cucina istintiva, materica.

È bellissimo, per esempio, andare nei campi di Massimo Patriarca, che ci fa usare i suoi campi come se fossero il nostro parco giochi. Decidiamo di volta in volta cosa raccogliere, a seconda dell’ispirazione che ci dà la natura: zucchine che crescono troppo, o fragole troppo piccole, che si potrebbero usare solo per fare confettura. O ancora il Caseificio Montoso di Bagnolo Piemonte, che fa un latte pazzesco da vacche allevate ad erba. L’azienda Santa Caterina, che produce olio a Pinerolo: una ristrettissima produzione di 800 bottiglie di qualità pazzesca. Per me conta questo e nel menù, che diamo da portar via, ho voluto menzionare ogni fornitore. L’altro aspetto fondamentale, infatti, è il gruppo. Non credo nell’essere primadonna, il nostro è un team unico tra cucina, sala e produttori. Sono eternamente grato ai miei più stretti collaboratori che, oltre a sopportarmi, mi supportano molto.

Come immagini la pasta del futuro? 

Penso che ci sarà sempre più un ritorno alla tradizione, con la valorizzazione della qualità effettiva del grano. L’acquirente cercherà una vera carta di identità di ciò che consuma, anche in ottica delle varie intolleranze che sono esplose negli ultimi anni.

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