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DAVIDE PALLUDA

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Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria, quello che cucinava tua madre?

Sicuramente un piatto di mia nonna, penne scotte che galleggiano nel grasso. Dal quel primo piatto ho capito molte cose, avevo la sensazione che il cibo avrebbe rappresentato qualcosa di importante nella mia vita. Il gusto di quel sugo mi ha fatto capire in seguito quanto sia importante la cottura lunghissima del ragù. Da certi
spunti, “errori”, si impara cosa non si deve fare e il contrario, la pasta andava cotta all’ultimo e proposta con meno condimento. Ricordi diventati insegnamenti di vita che porto dentro di me dall’infanzia.

Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio?

Il Roero? Tanto. È un territorio contaminato ma cha lascia spazio ad altro, una zona che ha vissuto e subito l’influenza sabauda, i sapori sono vivi, intensi. Sempre in modo cauto, sto iniziando ad esplorare cose nuove non solo legate al territorio di origine.

Tra questi qual è quello che ti rappresenta di più nella tua identità di uomo e di cuoco? E per quale motivo?


Nell’ultimo periodo ho sviluppato un interesse anzi un rapporto speciale con la selvaggina, mi da modo di lavorare con concretezza. Ogni parte deve essere ascoltata, provata. Ho avuto risposte soddisfacenti. Dall’altra vedo un grande ritorno alle farine, i profili aromatici sono del tutto particolari, autentici. Li apprezzo ed uso moltissimo. Infine, forse per l’età, ho sviluppato un trasporto per le sensazioni amare, che uso in qualche nuovo piatto per ricercare nuovi equilibri. Sono più difficili da raccontare, fare, e far capire. Ma divertenti.

Che tipo di pasta proponi nel tuo ristorante? E, se la acquisti, da quali produttori ti rifornisci?

Nel 90% dei casi uso gli spaghettoni, essendo nato e cresciuto con i tajarin, una pasta lunga quindi, mi sono sembrati da subito i più adatti alla mia cucina. Solo grano duro, mi affido ai pastifici Mancini o Gentile. Di entrambi mi piace la tenuta in cottura, hanno un gusto marcato. Il grano resta protagonista. A casa però sono un fan della pasta aglio, olio e peperoncino. Uso peperoncini calabresi, regione in cui trovo grandi sorprese e sapori affini a me. Gusti veraci.


Liscia o rigata?

Ruvida, assolutamente ruvida. La pasta deve essere un volano per apprezzare il condimento. Una pasta che trattiene, avvolge, accarezza. 

Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure il cuoco è libero di fronte a quello che, a livello domestico, può esser considerato un vero e proprio tabù?

Ci sono tabù che si possono sfatare, alcuni formati vanno d’accordo con un determinato condimento. È inevitabile, ma non sono mai stato vittima di cliché. Avevo provato a a fare un lavoro con le paste ripiene ma dopo mesi di tentativi ho capito che lo trovavo ingiusto, avrei dovuto cambiare troppe cose per poi perdere certe essenze che rendono la ricetta unica. Certe ricette non riesco a toccarle. E poi c’è la difficoltà di rendere belli quei piatti a base di pasta che vengono consumati in casa. Come le penne, ad esempio.

Come immagina la pasta del futuro Davide Palluda?

La immagino sempre più protagonista. È tanto antica quanto moderna. Antica nel sistema di lavorazione, moderna nel concetto di alimentazione di oggi: è salutare e adatta a tutti, dai vegetariani agli intolleranti e sportivi. Un alimento completo che accontenta tutti. La vedo dunque presente sempre di più nei piatti delle case ma meno forse nei menu degustazione in ristoranti. Tutt’al più alla carta.

Noi di Passione – Pasta gli abbiamo lanciato una sfida: creare forchettate, amouse – bouche dedicati alla pasta. 

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