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MORENO CEDRONI

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Moreno Cedroni è chef e proprietario, a Senigallia (AN), del ristorante la Madonnina del Pescatore ** e della salumeria ittica Anikò. Oltre a questi, Cedroni gestisce anche il Clandestino, a Portonovo (AN). Considerato uno degli chef italiani più innovativi, si definisce uno spirito avanguardista della cucina italiana, un concetto che ha articolato in diversi libri, tra cui Sushi & Susci (2001), Multipli di venti (2004), Maionese di fragole (2011) e Susci piu’ che mai (2014). Non è mancata la partecipazione, nel corso degli anni, a importanti congressi: presenza costante a Identità golose, si trova anche a Lo mejor de la Gastronomia, Gastronomika, Omnivore e Le strade della mozzarella. Quanto ai suoi riconoscimenti, nel 2008 lo chef vince il premio svedese Kungsfenan Seafood Awards, nel 2010 diventa testimonial Airc e nel 2014 Ambassador Expo 2015

Qual è stato il primo piatto di pasta? 

«Sicuramente gli spaghetti alle vongole rossi: penso che mia madre me li mettesse anche nel biberon. Abitavamo di fronte al mare e le vongole erano raccolte da tutti, in famiglia, quotidianamente, al punto che delle volte non si sapeva cosa farne, e allora si combinavano questi sughi belli densi, ricchissimi di gusto, che poi ancora ripropongo benché in altre versioni».

Quanto la sua zona di origine ha forgiato il suo repertorio? Quanto lo influenzerà in futuro? 

«La tradizione della mia famiglia, quando ero piccolo, erano le tagliatelle fatte in casa, gli spaghetti, la polentina, anch’essa con le vongole, le conchiglie anche chiamate “mutande” e i vincisgrassi, ovvero le lasagne. Queste paste e questi sapori fanno parte del mio archivio mentale, e vi attingo sempre». 

Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella storia della Madonnina del Pescatore? 

«Bella domanda. Dovrei andare indietro di 35 anni, alle prime tagliatelle ai frutti di mare in bianco, agli spaghetti con le vongole, al risotto, sempre ai frutti di mare, erano piatti della prima epoca, pochi ingredienti, molto concentrati, salse ricche di olio. Poi è arrivata la seconda fase: altri ingredienti si sono aggiunti a completare il piatto, soprattutto dal mondo vegetale o dal cortile: ecco allora i maltagliati con le vongole e le lenticchie, i paccheri col coniglio e i gamberi rossi, i rigatoni con le melanzane e le alici; gli spaghetti con gli scampi, lo zenzero e la salsa di cappuccio o con le pannocchie e la salsa di zucca e caffè».

Oggi Moreno Cedroni significa anche Clandestino e Anikò oltre alla Madonnina del Pescatore. È lecito parlare di formati di pasta più adatti all’osteria e di altri più attenti al mondo fine dining? 

«Non parlerei di formati, ma di cotture. Anikò, che è uno street food con un potenziale di cucina ridotto, trova nella lasagnetta e nella polentina due paste pratiche, così come accade al Clandestino dove serviamo lo “spinosino”, ovvero una tecnica ancestrale dove la pasta, appena scolata e mescolata col sugo, viene messa in frigo e, per così dire, mantecata a freddo. Alla Madonnina, invece, sia per numero di cuochi che per potenziale di attrezzature e spazi possiamo permetterci una certa libertà, sia in termini di formato che di ingredienti coinvolti».

Penne rigate al burro di ricci di mare.
PH.Brambilla-Serrani

Tra i piatti attuali ce n’è almeno uno che, in particolare, la rappresenta nella sua identità di uomo e di cuoco? 

«Strano ma vero: uno dei miei migliori piatti di pasta non è di pesce, ma è un tortellino ripieno di Parmigiano Reggiano con carne cruda, pomodoro e marmellata di balsamico: è un piatto in cui c’è l’Italia tutta: gusto, sorpresa, tecnica e prodotto».

A questo proposito, abbiamo captato alcuni rumors intorno a un piatto di pasta nuovo, che fonti autorevoli descrivono come “indimenticabile”: le penne al burro di ricci di mare con capesante essiccate, erbe spontanee e seppia ai carboni. Come nasce un piatto così?

«Nasce da un’idea di Luca Abbadir, executive chef della Madonnina, su un suo lavoro sulle capesante disidratate e sulle erbe spontanee ai carboni. A queste ho aggiunto una pasta preparata casualmente ad alcuni amici durante le feste natalizie: penne al burro di ricci di mare. Tecnicamente ciò che lo rende indimenticabile è anche il modo in cui si mangia: nessuna forchetta, ma una pinza e una paletta in modo che il cliente prenda una  penna alla volta, e si prenda anche la cura di passarla nel condimento alla base. Ciò costituisce un piacere nuovo, completamente diverso rispetto al mangiarle, in pochi secondi, a forchettate».

Formato e condimento: il rapporto è delicato, è percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure si può forzare quello che, a tutti gli effetti, può esser considerato un tabù?

«Questione molto interessante. Ecco penso che inizialmente si accetta il vincolo, il rapporto, già deciso, da altri. Crescendo, poi, ci si rende conto che tutto si può cambiare. Se la penna all’arrabbiata fosse uno spaghetto, tecnicamente, cambierebbe poco. Il formato non ha delle ragioni specifiche a meno che non si abbiano sughi molto liquidi, e quindi si abbia la necessità di una una pasta “contenitore”, come la conchiglia. Mi viene in mente che pochi anni dopo aver aperto la Madonnina, credo introno al 1988, decisi di fare lo gnocchetto al frutto di mare: ebbene, all’inizio venni tacciato di eresia. Adesso è nei menù di tutti i ristorante del lungomare. Si trattava insomma di un tabù: un tabù collettivo».

Come si immagina la pasta del futuro? 

«Sempre più buona, giustamente al dente, facilmente digeribile. E ne cambieranno forse gli approcci. L’italiano è un popolo di “forchettoni”, ma in cucina conosciamo anche il valore del cucchiaio. L’approccio modifica il piacere che se ne ricava. E qui torniamo alla penna al burro di ricci di mare a cui le pinze, allungando i tempi della sua fruizione, restituiscono un piacere nuovo dato dall’esercizio della masticazione che diventa, esso stesso, un momento di contemplazione». 

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