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SALVATORE BIANCO

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Nato nel 1978 a Torre del Greco, Salvatore Bianco è l’executive chef de Il Comandante, il ristorante stellato sito al decimo piano dell’Hotel Romeo di Napoli. Dopo un lungo peregrinare tra Toscana e Svizzera e da Milano a Roma, oggi è tornato a casa in una cucina in cui i sapori più autentici e veraci del Golfo di Napoli convivono con ingredienti esotici e tecniche alloctone, non di rado avveniristiche. 

Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria? 

Senz’ombra di dubbio, la pasta e pomodoro: gli spaghetti al pomodoro. Del resto, considerando che sono di Torre del Greco, e sono stato tirato su a conserve fatte in casa, non potrebbe essere altrimenti: se ci penso sento già il profumo che mi sale al naso.

Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio culinario?

Tantissimo, la mia terra è un richiamo costante e sono certo che sarà così ancora in futuro. Devo però ammettere che altrettanto costante è anche il desiderio di aprire gli orizzonti.

Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia professionale? 

Ce ne sono stati tanti: tra gli ultimi non posso non menzionare, però, il Ragù 9850, che rappresenta la distanza tra Tokyo e Napoli. Perché si chiama così? In primo luogo per via di quanto ti dicevo prima, “qui e altrove” convivono sempre nella mia cucina, questo però è un piatto con una storia lunga, per cui devo partire dall’inizio. Tutto cominciò con un’idea nata a Chicago durante un congresso, anni fa, quando maturai l’istinto di fare il primo ragù senza carne. L’idea è rimasta lì latente per due anni, poi un giorno è riaffiorata, e mi sono chiesto cosa ci sia di così buono nel ragù napoletano. Risposta? L’umami: quello del pomodoro e quello della carne, appunto. Volendo però fare a meno della carne sono andato a cercare in natura gli elementi più affini. Ho realizzato un blend di elementi, un concentrato di funghi shitake, caffè, miso, soia e pomodoro San Marzano essiccato al forno essiccato. È venuta una cosa così verosimile che, giuro, nemmeno i napoletani se ne accorgono. In più, ho creato un prodotto che nasce e vive nel tempo. La carne, stagiona e tende a migliorare nel tempo: più evolve e più e buona, che serviamo in sala con una performance che richiama la tradizione. A Napoli, infatti, quando in una situazione si ribaltano i ruoli si dice amm’fatt a carne ‘a sotto ‘e maccarune a’ copp’ e, così, invertiamo il sopra col sotto mettendo prima di tutto del Parmigiano sotto forma di granita realizzata all’ azoto e che si scioglie al contatto caldo, poi le candele spezzate e, infine, il ragù. L’aspetto tecnico del piatto sta proprio nella dolcezza del Parmigiano, che funge da catalizzatore per il ragù. Poi, ci sono delle accortezze ulteriori: come quella che vuole che gli ospiti si puliscano le mani col basilico prima di cominciare a mangiare e, infine, la polpetta – d’o’ puveriello– che rimanda di nuovo alla tradizione: quella di un passato cha era attento a sprechi ed economicamente limitato. Un altro piatto è, poi, il concentrato di mare che è, come tutta la mia cucina, invero,  un’esplosione, una deflagrazione. Tutta la mia cucina è esplosiva, molto concentrata in quello che esprime: in questo caso una concentrazione mare, rappresentato da una massa di cefalopodi che facciamo ridurre dai 20 a 7 kg. All’interno ci facciamo cuocere una pasta mista, e fatt n’ammesca Francesca, che viene miscelata e servita con un’emulsione di anemoni e una proteina di pesce bianco, dolciastra, che si combina con un’estrazione di rucola selvatica molto amara e prezzemolo. Per finire, metto gli occhi di Santa Lucia perché la mia cucina si basa su un concetto di integralità totale, che vede l’impiego di ingredienti antichi e/o dimenticati, e che anche di questi non spreca mai nulla.

Liscia o rigata?

Be’, dipende dalla tipologia. Non ho vincoli. Per le candele, essendo un sugo ad alta densità, preferisco la pasta liscia; altrimenti con sughi ad alta viscosità preferisco la rigata. Non si può protocollare la cucina: è artigianato puro, per cui il protocollo cambia a seconda del prodotto che hai a disposizione. 

Trovi che sia legittima una gerarchizzazione della pasta in base al suo formato? Mi spiego meglio: ritieni che esistano formati più popolari (da trattoria o da bistrò) e altri più elitari (da fine dining)?

No, non esiste, io uso tutto. Esiste solo la pasta buona o non buona. Il formato cambia di resa a seconda del produttore, alcuni produttori sono ottimi per un formato, meno per un altro. È normale, sei tu a dover scegliere, a selezionare sulla base delle tue priorità. Prendi me, per esempio: per me la componente estetica è tutto, vengo da una famiglia di artisti, per cui l’aspetto estetico è tutto, ma sono anche convinto che forma e sostanza siano la stessa cosa, per questo motivo non ammetterò mai una pasta esteticamente perfetta, che però non abbia una sua perfezione anche intrinseca: di sapore.

Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure il cuoco è libero di fronte a quello che, a livello domestico, può esser considerato un vero e proprio tabù?

Io sono un anarchico di base. Ci sono regole e regolamenti per approcciare alcuni ingredienti e la materia, su cui certo non transigo, ma per il resto la cucina è una forma di libertà. La mia cucina si basa anche sul mio stato d’animo, per questo cambia moltissimo a seconda del momento. Non voglio né posso però mettere vincoli: la cucina è piacere, è godimento e quando devi godere non puoi avere limiti.

Come immagini la pasta del futuro? 

Te la riassumo con un concetto: alcune cose sono sacre e non si toccano. Tecnica ed evoluzione dei processi devono essere volte alla valorizzazione, e non alla demolizione. Per cui ritengo che la forma della pasta non debba essere toccata: piuttosto, può essere valorizzata mediante una tecnica di cottura. Un esempio? La mia Acqua di Mare (una pasta idratata in acqua  e pietre marine e cotta in padella successivamente con alghe ed ingredienti che parlano di mare). Così facendo ho fatto innovazione, pur mantenendo l’integrità assoluta della materia e rispettando l’artigiano che l’aveva creata.

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