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LORENZO CAREGGIO

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Dal 2019 è chef presso Eragoffi, ristorante sul fiume non lontano dal centro della prima capitale d’Italia, Torino. Studia ingegneria e comunicazione, poi sceglie di abbandonarsi alla sua passione e seguire quella strada che non avrebbe mai voluto abbandonare: la cucina. Si forma in trattorie, ristoranti di ogni tipo. Atterra all’Accademia di Niko Romito, studia ancora, e mette in pratica i saperi appresi a Spazio Roma e Spazio Milano, per poi esprimersi al fianco di Fabrizio Tesse, al ristorante Carignano all’interno dell’Hotel Sitea.

Oggi, con tre amici primi che soci, propone una cucina che mette al centro le ricette e le lente cotture del Piemonte, arricchite da un uso piuttosto importante di spezie in ricordo della sua infanzia in Marocco, e dei gusti locali, seguiti dai continui viaggi della madre in India e relativi ritorni con sapori nuovi da scoprire. I ricordi vivono e si trasformano oggi in ricette di un ben più maturo Lorenzo Careggio. I gusti sono in equilibrio e ricercati, un gourmet fine ma intenso, e che non lascia vuoti, ma soprattuto s’ispira e omaggia la cucina italiana, senza troppe contaminazioni.

Il tuo primo ricordo legato alla pasta?

Sicuramente gli agnolotti di Natale, che cerco, e mi impegno nel farli ogni anno, per la famiglia, seguendo la ricetta di mia nonna. Un agnolotto classico, con brasato di vitello e maiale, con sugo al sangue, funghi secchi e un fondo di carne. Un piatto a cui mi ci dedico almeno una giornata, un omaggio alla tradizione. 

Cosa rappresenta per te la pasta?

Rappresenta il mangiare italiano per eccellenza, la pasta, oltre ad essere identificativa nel mondo, è una cosa che tutti gli italiani in primis sanno fare, è la punta dell’iceberg della nostra cucina se vogliamo. Più vado a fondo e più capisco quanto può diventare complesso un piatto di pasta. E, non ultimo, chiunque sa farlo, e riempire la tavola con gioia. 

C’è un piatto di pasta che ha forgiato il tuo percorso o che ti ha fatto fare lo “switch”?

Un piatto di pasta assaggiato durante il mio percorso all’Accademia di Niko Romito ad opera di chef De Blasio, che ha proposto dei capelli d’angelo al burro e limone. Un qualcosa di semplice apparentemente ma che mi ha fatto capire come non bisogna rovinare alcun elemento se si vuole ottenere risultati eccezionali. Da allora non mi sono mai fermato nello sperimentare, diventando sempre più esigente.

Che tipo di pasta proponi nel tuo ristorante? E se l’acquisti, da quali produttori ti rifornisci?

La pasta Felicetti in questo momento rappresa il meglio per me e la mia cucina. Per gusto e rapporto qualità-prezzo. Il mondo della pasta penso di averlo compreso durante il mio percorso in Abruzzo dove ho avuto modo di capire come ogni formato più idoneo alla cucina gourmet trovi poi riscontro e differenze nei pastifici che uno approccia. Prima usavo Verrigni ma è appunto con Felicetti che ritrovo un gusto della pasta e del grano, al netto del condimento che scelgo. In futuro chissà, magari cambieremo pastificio ma cambieremo anche formato di pasta.

Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure il cuoco è libero di fronte a quello che, a livello domestico, può essere considerato un vero e proprio tabù?

In cucina mi sento libero di fare cosa voglio, la pasta è talmente poliedrica che ti porta a studiare un sugo per il formato e viceversa. Restano poi dei formati più adatti di altri, come dicevo, nel fine dining in cui metto in cima senza dubbio gli spaghetti rispetto alle penne, ad esempio, o i fusilli. L’unico limite che vedo è la fantasia.

Come vedi la pasta del futuro ?

Da un parte sempre più buona e ricercata e dall’altra, nel fine dining, mi immagino un uso della stampa 3D sempre più importante, perché anche l’occhio vuole la sua parte e rappresenta sicuramente un ottimo strumento sebbene ad oggi vi siano dei limiti di produzione. Ciò che mi spaventa di più è la ripetitività, sta a noi cuochi non smettere di creare.

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