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MATTEO BARONETTO

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Un trascorso che l’ha visto allievo di Marchesi prima e braccio destro di Carlo Cracco poi, oggi Matteo Baronetto guida il ristorante Del Cambio, una Stella Michelin a Torino.

Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria? 

«La pasta al burro e pane grattugiato, spaghetti, per la precisione.»

Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio culinario?

«La mia zona di origine, il Piemonte, c’entra poco o niente con la pasta che, fino a quarantacinque anni fa, era pressoché sconosciuta. Poi, una volta filtrata nella quotidianità, è diventato rarissimo trovarne di buona, ovvero fatta bene. Ho così familiarizzato con la pasta grazie al mio lavoro, mediante un approccio professionale: da italiano mi sento molto vicino, comunque, alla cultura della pasta.»

Liscia o rigata? Lunga o corta?

«Se è corta preferisco sia rigata, e alle penne preferisco i rigatoni. Su tutti preferisco lo spaghetto, con qualche deroga anche sulle trenette. Dello spaghetto mi piace la natura versatile, così versatile da essere universale.

Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia professionale? 

«Identificativo del periodo milanese fu lo spaghetto ricci di mare a caffè: si trattava di una pasta tradizionale, ma con tonalità di gusto del tutto nuove per l’epoca. Una cosa che mi ha affascinato per lungo tempo è stata, poi, il timballo del Gattopardo. L’ho riprodotto esattamente per rispettarne la natura: quella di considerare la pasta non solo come supporto ma anche e soprattutto come contenitore capace, come tale, di tenere caldo il condimento. Oggi a Del Cambio propongo un dialogo con la tradizione, che si ritrova nel Ramen piemontese, negli Agnolotti e nei Ravioli di acciuga con calamari, fave alla camomilla e latte di soia

Trovi che sia legittima una gerarchizzazione della pasta in base al suo formato? Ritieni che esistano formati di pasta più popolari (da trattoria o da bistrò) e altri più elitari (da fine dining)?

«Sì, sicuramente, anche se è spesso ciò accade per una questione di moda e, di conseguenza, per ragioni commerciali. Se andiamo a vedere le ragioni di successo di un formato scopriamo per esempio che, ultimamente, tutto parte dall’alto. Comincia dall’alto con la sponsorizzazione da parte di uno chef e poi si capillarizza nel consumo quotidiano e domestico.»

Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. Sei d’accordo?

«In linea generale ritengo che la pasta sia sempre un mezzo. Oggi ci si arrovella su una quantità di elementi, tra cui la trafilatura, la qualità e la varietà di grani utilizzati, ed è vero, è tutto molto importante. Ritengo però che una pasta buona, una pasta veramente buona, si possa e si debba apprezzare solo con un filo d’olio. Mi trovo, pertanto, molto favorevole alla emancipazione della pasta dal sugo.»

Come immagini la pasta del futuro?

«Per cominciare, visto che sono sempre stato un sostenitore della sottrazione, io ritengo che ci siano troppi formati in commercio. Preferirei dunque che ci fossero meno, ma più buoni. Se poi devo pensare ai limiti della pasta, penso alla cottura: una cottura sbagliata può generare un fraintendimento importante. Gli stranieri che, arrivando in Italia, restano sfavorevolmente colpiti dalla pasta al dente perché nel loro paese di origine questa viene servita ancora scotta, di preferenza. Poi, penso che la pasta del futuro debba essere buona e sostenibile anche nel modo di venderla: considerata l’attualità mi sembra infatti un anacronismo che la pasta sia ancora venduta in confezioni da 1 kg o 500 grammi. Il risultato? Abbiamo mille pacchi di pasta aperta in dispensa, ed è una regola che se ti viene bene l’hai sempre cotta poca (Edward Aloysius Murphy, delle leggi omonime, l’avrebbe apprezzata n.d.a.). Per questo ritengo che dovrebbe essere venduta, e quindi già suddivisa dalle aziende, in mono-porzione. Sarebbe, questo, un ulteriore passaggio nella filiera di produzione della pasta che, così concepita, diventerebbe finalmente oggetto di una valorizzazione reale, non solo in termini di prezzo, ma anche in termini di intenzioni: darebbe ordine e pulizia alla dispensa e, con essa, ai propositi di ciascuno di noi.»

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