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PAOLO GRIFFA

Sebbene abbia solo trent’anni, Paolo Griffa ha già collezionato esperienze che basterebbero per una carriera intera, come quella al Combal.Zero di Scabin, alla corte di Serge Vieira in Francia e al Piccolo Lago di Verbania. Una lunga gavetta che ha trovato compimento presso il Grand Hotel Royal e Golf di Courmayeur e più precisamente presso il ristorante Petit Royal, insignito dal 2019 della prestigiosa Stella Michelin.

Parliamo del “Cannellone Put-Together – Omaggio a Missoni”, piatto bellissimo e complicatissimo. Come ti è venuta questa idea?
Abbiamo un  menù dedicato a tutte le forme d’arte nel quale, da sempre, volevo inserire un omaggio alla moda. In primo luogo perché è una mia grande passione, poi per il significato che ha per il Made in Italy e in questo senso la scelta non poteva ricadere che su un piatto di pasta. Per molto tempo sono andato avanti a informarmi sulla storia delle maison italiane; cercavo una trama di tessuto, un motivo iconico, e quello di Missoni è bellissimo, con una storia altrettanto interessante. Pare infatti che Ottavio Missoni durante un viaggio a Petra abbia trovato l’ispirazione nelle stratificazioni di roccia e abbia provato a riprodurne il layer di toni caldi e freddi. Mi ha colpito, perché è quello che accade anche in cucina, quando riporto nei piatti l’ispirazione che ho trovato nel mondo.

Così, l’anno scorso, quando ho annunciato di voler creare una pasta che avesse uno zig zag, mi hanno guardato come se fossi allucinato. In effetti era un’idea difficilissima da mettere in pratica. All’inizio avevamo pensato di utilizzare la stampante 3D, ma una volta che metti a bollire la pasta come fai? Il lockdown in questo senso ci ha aiutato, perché abbiamo avuto il tempo di riflettere e e sperimentare. Alla fine abbiamo messo a punto una tecnica che prevedeva l’uso di colori naturali, dove però ognuno di essi aveva un gusto proprio se si voleva ottenere un colore brillante e definito. Quindi la difficoltà stava nel sovrapporre così tanti gusti, sette per la precisione, trovando il modo di farli risultare neutri una volta in bocca. Per non parlare della tecnica che richiede questo piatto e dell’esigenza di calcolare millimetricamente e replicare tutti i giorni questo processo. Un conto è farlo una volta, un altro è replicarlo dieci volte ogni sera. Infatti ne serviamo soltanto dodici al giorno, come se fosse una limited edition all’interno del menù degustazione. Per legarlo ulteriormente a Missoni e richiamare le origini del disegno, nella farcia abbiamo introdotto una contaminazione etnica: l’agnello valdostano viene aromatizzato con spezie esotiche, i fagioli sono cotti come se fosse un cassoulet e ci serviamo del coriandolo per dare freschezza. La salsa, infine, è di formaggio di pecora “figlio dei fiori”, affinato nella canapa. Ho pensato che anche questo richiamo hippie si sposasse bene con la maison.

Tornando alla pasta, qual è il primo piatto di cui hai memoria, quello che cucinava tua madre?
Le lasagne con tantissimo sugo, che è come se avesse una propria vita della durata di almeno 3 giorni: il primo quando si prepara il ragù e lo si mangia con il pane; il secondo giorno, nella lasagna, e il terzo, quando si riscalda la pasta che ne è ormai impregnata e si forma quella crosticina pazzesca in superficie. Cosa c’è di più buono?

Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio?
Sicuramente molto. Sono di origini piemontesi, nato in una terra dove il cibo la fa da padrone e diventa un pensiero quasi ossessivo. A me piace dedicargli molto tempo perché mangio per stare bene, è un momento di benessere.

Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia professionale?
Ricordo in modo forte la Carbonara “au koque” di Marco Sacco (ristorante “Piccolo Lago” **, ndr). Ogni giorno ne assaggiavo un cucchiaio dal piatto di ogni singolo cliente per controllare che fosse buona e alla fine credo di averne mangiate tonnellate. O in Francia, da Serge Vieira, che quando ha scoperto che ero italiano mi ha fatto fare dei plin da 2 grammi, praticamente i più piccoli mai visti nella storia. Me la sono sempre portata dietro la pasta.

Tra questi qual è quello che ti rappresenta di più nella tua identità di uomo e di cuoco? E per quale motivo?
Io non mi affeziono mai tanto ai piatti: non voglio fossilizzarmi, mi piace cambiare. È molto più stimolante.

Che tipo di pasta proponi nel tuo ristorante? E, se la acquisti, da quali produttori ti rifornisci?
In Val d’Aosta la pasta è molto limitata, esiste solo la Favò tipicamente. Tuttavia non ci rinuncio, perché ci connota come italiani, è un simbolo che affascina anche gli stranieri, che sono curiosi di vedere come la prepariamo veramente. Per la pasta secca mi rifornisco dunque da Felicetti, così in un qualche modo restiamo comunque in montagna.

Trovi che sia legittima una gerarchizzazione della pasta in base al suo formato? Mi spiego meglio: ritieni che esistano formati più popolari (da trattoria o da bistrò) e altri più elitari (da fine dining)?
Dipende da come li vai a condire e li presenti, la pasta è super duttile. Alcuni formati possono essere meno congeniali, come il pacchero che secondo me è scomodissimo, ma un locale come Da Vittorio ne ha fatto un must. Sta alle persone che lo lavorano dargli un valore.

Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure il cuoco è libero di fronte a quello che, a livello domestico, può esser considerato un vero e proprio tabù?
Abbiamo così tante variabili che non mi sento vincolato.

Come immagini la pasta del futuro? 
Spero si parli sempre più di qualità e che sia sempre più valorizzato il luogo in cui si produce. Non deve essere vista come un piatto “riempi pancia”, quindi passabile di ogni tipo di preparazione, anche junk food. Per noi è tradizione, una forma d’arte che deve essere approcciata in modo rispettoso.

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