Una pasta di recupero
Un formato inconsueto, un po’ mischiato, che ha la particolarità di non avere una cottura uniforme. D’altronde si sa, “da uguale dimensione corrisponde uguale tempo di cottura”.
Origini
Ritornando agli inizi della produzione della pasta, non esistevano le confezioni singole da comprare al supermercato. Se vogliamo essere pignoli neanche i supermercati esistevano. La pasta veniva venduta sfusa, dal panettiere, dal pastaio o dal droghiere (di legge, solo alcuni negozi potevano venderla), che imbustava la quantità desiderata prendendola direttamente da dei grossi sacchi. Purché oggi suoni strano, era la norma; e la stessa cosa succedeva con il riso, e tutto ciò che di secco si poteva infilare in un sacco. Un problema pratico era quello della rottura del prodotto. Se la pasta sfrega, o sbatte, si rompe; infilandola in un sacco, soprattutto di grandi dimensioni, questo fenomeno viene amplificato perché c’è più superficie di contatto tra la pasta. La grande distribuzione risolverà questo problema: per la pasta riducendo la dimensione dei pacchi e con il riso, ancor più delicato, mettendolo anche sottovuoto.
Immaginiamo quindi questi sacchi da 15-20 kg, o magari di più, in cui durante il trasporto la pasta subiva degli urti, o anche solo il suo stesso peso, rimanendo in magazzino. Il sacco veniva spesso scrollato, in modo che i pezzi più danneggiati rimanessero sul fondo. Una volta arrivati alla fine, non molti avrebbero pagato a prezzo pieno per una pasta tutta rotta. Questo avanzo del sacco buono veniva traferito in un altro sacco, sulla cui sommità veniva apposto un bel cartello “pasta mista” (ovviamente nella sua declinazione locale, e nove volte su dieci in dialetto); questo sacco aveva un prezzo scontato.
Nello specifico pasta “MISTA” e non “rotta” o “di seconda scelta” perché nello stesso sacco venivano riversati i fondi di tutti i formati disponibili nel negozio. Più o meno lo stesso accadeva in tutta Italia, in misura crescente dal 1600 fino agli anni ’60 del novecento, quando furono introdotti su larga scala i “pacchi singoli”. Che poi fossero le donne di paese, le corporazioni o i poveri a unire i sacchi… il succo rimane quello di evitare lo spreco. Ogni regione, provincia o città ha le proprie storie; questa pasta ha tanti nomi quanti sono i nostri dialetti. Il caso più famoso, che è riuscito a far parlar di sé, è quello di Napoli, dove il legame con la pasta è strettissimo e radicato nella tradizione. La pasta “ammescata” o “meschiafrancesco” come viene chiamata lì è il caso più conosciuto.
Cucina
Il filo conduttore per le ricette che si ritrovano per tutta Italia si può dire che sono i legumi. Sinonimo questi di cucina popolare e quindi collegato alla natura di riciclo e risparmio di questo formato. Si crea un gioco di consistenze, dovuto al “mix” di tempi di cottura diversi, che porta ad avere pasta cotta, stracotta, al dente e un pelo indietro, tutto assieme. É la guarnizione perfetta per le minestre, piatti con legumi come la pasta e fagioli, ma anche in abbinamento alle patate.
La pasta mista ha bisogno di un condimento sostanzioso, spesso, in cui l’attenzione ricade sull’insieme e non sulla pasta, proprio perché il gioco di consistenze crea un contrasto che in un piatto come ad esempio una carbonara stonerebbero. Questo formato è di fatto una testimonianza del valore commerciale e sociale della pasta, dove non ci si poteva permettere di buttare neanche quella difettosa.
Con il tempo l’industria pastaia ha risolto il problema delle rotture. Ma la popolazione (chiedete ai nonni e guadateli sorridere ricordandolo) è rimasta affezionata al formato. E così alcuni marchi hanno fatto una scelta, riproponendo la pasta mista (anche se, ovviamente, i diversi formati non sono rotti ma solo mischiati). Il formato in commercio oggi si rifà alla tradizione napoletana, e racchiude in genere paste lunghe come Spaghetti (di diverse misure), Mafalde, e Bucatini, tagliati a circa 4-5cm per simularne appunto la rottura, che nel caso delle paste lunghe era molto più frequente.