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LUIGI TAGLIENTI

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Note acide, equilibrio assoluto e semplicità anche nelle reinterpretazioni più all’avanguardia; queste sono le cifre stilistiche della cucina di Luigi Taglienti. Lo chef di origine ligure dal 2016 ospita i suoi clienti al Lume, una Stella Michelin in via Watt 37 a Milano. Numerose e altisonanti le esperienze che lo hanno formato in passato: dall’Antica Osteria del Ponte con Ezio Santin a  Le Palme D’Or, Cracco, Ristorante della Antiche Contrade e Trussardi alla Scala.

Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria? 

«Lo spaghetto al sugo rosso con vongole che mia nonna chiamava “ciamaruche” con prezzemolo e abbondante peperoncino».

Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio? Quanto lo influenzerà ancora in futuro? 

«Nelle mie vene scorre sangue proveniente da parecchie regioni italiane: un DNA italiano che influenza e che arricchisce costantemente, e inevitabilmente, la mia missione gastronomica».

Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia professionale? 

«Nella mia cucina la pasta ha un ruolo importante poiché viene utilizzata sia nella concezione tradizionale, ma anche come un foglio bianco sul quale creare sapori sempre nuovi: sapori in movimento».

Tra questi, qual è quello che ti rappresenta di più nella tua identità di uomo e di cuoco? E per quale motivo?

«I maccheroni con le trippe: un piatto tipico tradizionale del periodo natalizio, tipico del Savonese e i fusilli maracujá, bottarga e rosmarino».

Trovi che sia legittima una gerarchizzazione della pasta in base al suo formato? Mi spiego meglio, ritieni che esistano formati più popolari (da trattoria o da bistrò) e altri più elitari (da fine dining)?

«Ritengo che sia fondamentale rispettare la nostra cultura gastronomica e, quindi, rispettare forme e contenuti. Come dicevo prima, tuttavia, la sensibilità del cuoco fa sì che da un formato si possa fare una cucina di tipo couture e, così facendo, dare progettualità a sapori nuovi».

Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure si può forzare quello che, a tutti gli effetti, può esser considerato un tabù?

«Dipende molto dalla sensibilità del cuoco, il cui obiettivo è sempre quello, parlando di pasta, di creare sinergia tra formati e condimenti. La mia cucina  è pensiero e, dal pensiero, costruisco la tecnica e non il contrario. Allo stesso modo secondo me dovrebbe essere interpretata  la pasta».

Come immagini la pasta del futuro? 

«Semplicemente condita e saltata in padella». 

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