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ALESSANDRO MECCA

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Classe ’84, da sette anni è alla guida della brigata ai fornelli del Ristorante Spazio7 a Torino. Un’esperienza cominciata nel 2015 che gli ha vista riconosciuta la Stella Michelin nel 2018. Figlio di ristoratori, conosce il mondo gastronomico con i suoi ritmi e le sue regole fin da bambino, fatto che innesca in lui la passione per la cucina e la sua terra, ma anche la voglia di conoscere il mondo. Dopo numerose esperienze piemontesi tra cui Guido, Al Sorriso e La Ciau del Tornavento, si trasferisce in Brasile per svolgere uno stage al fianco di Alex Atala presso il DOM di San Paolo, premiato tra i ristoranti 50best.
La cucina dello chef è essenziale e legata al territorio: pochi ingredienti vengono declinati elegantemente attraverso combinazioni centrate di sapori e consistenze atte a ricreare golosi piatti, anche vegetariani.

Qual è il primo piatto di pasta di cui hai memoria, quello che cucinava tua madre?

«Come pasta, ricordo quella fresca, sicuramente i ravioli del plin, i ravioli quadrati della tradizione piemontese. Mia mamma non cucina, cucinava mio papà. Mi sono sempre piaciuti molto i rigatoni al ragù e gli spaghetti al pomodoro. Se ci penso, c’è poi una cosa che mi piace da matti fin da quando ero piccolo: quando la pasta quando si unisce al sugo e viene fatta riposare un po’ in modo che assorba bene il condimento. Quella sensazione impagabile di pasta che, quasi tiepida, diventata un unicum con il sugo perché davvero ben legata con esso».

Quanto la tua zona di origine ha forgiato il tuo repertorio?

«La mia zona d’origine mi ha influenzato molto, tanto più che sono figlio di ristoratori e in Piemonte ho fatto numerose esperienze in cucina. Mi piace la tradizione culinaria, la storia della cucina e dei miei luoghi. Prediligo la cucina atavica, storica, mi interessa tutta la ricerca della parte culturale in cucina, ne sono affascinato».

Quali sono, o sono stati, i piatti di pasta più significativi nella tua storia professionale?

«Di quelli che ho cucinato io, sicuramente lo Zito con peperone crusco e animelle d’agnello, un piatto che mi è piaciuto molto. Sono un amante dei sapori forti, di carattere. Questo tipo di portate hanno caratteristiche distintive ben precise anche se sono piatti che piacciono probabilmente a una clientela un po’ più tecnica. Non sono tipo da piatti “piacioni”. Oltre alle mie creazioni, vorrei nominare anche paste fatte da colleghi che hanno saputo lasciare il segno, che reputo spettacolari: ricordo uno spaghetto con la granita di ricci di mare e prezzemolo, e uno spaghetto favoloso con zenzero, wasabi e tartufi di mare di Cesare Grandi del ristorante La Limonaia».

Che tipo di pasta proponi nel tuo ristorante? (Fresca, secca, all’uovo…). E, se la acquisti, da quali produttori ti rifornisci?

«Che si tratti di pasta secca, fresca o all’uovo, mi piacciono tutte. Cerco di avere in carta più varianti, dal formato al condimento. Attualmente stiamo lavorando su delle paste fredde anche se non abbiamo ancora niente nel menù. Se dovessi scegliere un formato in particolare direi lo zito, è il formato che mi piace di più.
Per quanto riguarda i pastifici, ho lavorato per anni con Verrigini, adesso mi rifornisco da Mancini. Il motivo del cambio? Non c’è stato alcun problema con Verrigini anzi, rimane un produttore che stimo e apprezzo, tuttavia geograficamente Verrigini era difficilmente reperibile presso il mio fornitore di Torino e così dopo varie sperimentazioni ho scelto Mancini».

Trovi che sia legittima una gerarchizzazione della pasta in base al suo formato? Ritieni che esistano formati più popolari (da trattoria o da bistrò) e altri più elitari (da fine dining)?

«No, non penso ci sia una gerarchia, penso che tutto possa essere il contrario di tutto senza schemi precisi e definiti. Se un cuoco, poniamo il cuoco del momento, riesce a vedere una ricetta gourmet in una mezza penna che magari è un formato “da casa”, ecco che tutti cambiano idea».

Formato e condimento: il loro rapporto è delicato, percepito quasi come un vincolo. È il formato della pasta a determinare il condimento, oppure il cuoco è libero di fronte a quello che, a livello domestico, può esser considerato un vero e proprio tabù?

«I vincoli sono sentimentali, ma ognuno dev’essere libero di interpretare formato e condimento come preferisce. Ad esempio, io amo gli spaghetti alle vongole, li adoro proprio. In uno dei miei ristoranti preferiti fanno i rigatoni alle vongole e va benissimo. Preferisco sicuramente gli spaghetti con le vongole e i rigatoni all’amatriciana ma comunque va bene, quella pasta è meravigliosa».

Come immagini la pasta del futuro?

«È una domanda difficile, non c’è una sola risposta, dipende. Adesso, per esempio, mi piace la pasta fredda ma penso che sia un aspetto momentaneo. Tra due anni tutti faranno paste fredde e poi, passato un po’ di tempo, ricominceremo a fare le paste saltate. La pasta è un elemento legato a mammà, ai ricordi e anche alla tradizione, lo vedo un alimento contemporaneo, sempre attuale eppure capace di muoversi lungo quelle che sono le tendenze. Tralasciando la ristorazione gourmet, in casa penso che la mangeremo sempre nella stessa maniera.
Per quanto riguarda la pasta come prodotto in sé, come ristorazione e non solo, ci continueremo a muovere nella direzione della qualità, verso prodotti sempre più prodotti naturali e di ricerca evitando i pasticci».


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